Improvvisamente quest’ estate …

Dipinto: Watches di Salvador Dalì

di MGL

La “mamma che perde un figlio/a” (così come il padre che perde un figlio/a) è un concetto tabù nella nostra cultura tanto da non trovare rappresentazione in una unità lessicale specifica. Questa smagliatura della struttura linguistica sottintende la necessità di esprimersi per perifrasi suggerendo che soltanto il lento accompagnamento (perifrastico) possa lenire un dolore così estremo, enorme. La moglie/marito che perde il marito/moglie è vedova/o, il bambino/a che perde i genitori è orfano/a, la mamma e un papà che perdono un figlio sono…? E qual è la condizione emotiva di chi è in lutto per la scomparsa di una persona cara? Shock, sofferenza acutissima, smarrimento, rabbia, disperazione, alienazione, perdita di senso. Ma la morte improvvisa e violenta di un figlio è anche innaturale e sovverte ogni ordine e le attese di una famiglia che all’improvviso si sente senza passato e senza futuro, sospesa, bloccata davanti ad un momento infinito. Nessun genitore si aspetta di sopravvivere ai propri figli e si sente in colpa di essere vivo. Quando un figlio muore, per i genitori è una prova durissima che scuote le fondamenta dell’intera esistenza di un uomo e di una donna. Questo lutto investe la coppia in maniera diversa, investe la questione dell’identità, del senso della vita e anche del senso di giustizia. Tutto diventa inutile, insignificante…i genitori non saranno mai più come prima di questo tragico evento. Essi si chiedono: a che è servito averlo seguito, incoraggiato, indirizzato verso una vita piena e consapevole? A che è servito che si sia impegnato a completare gli studi o trovare un lavoro, o prendersi un impegno sociale, avviare una carriera e sviluppare relazioni adulte? Che scopo ha ora la vita per chi resta? E da un altro punto di vista, quali equilibri infrange una morte in famiglia? A cosa ci si può aggrappare quando ci si sente in caduta libera? A volte nei rapporti riaffiorano gli attriti, si ampliano le distanze, si perde man mano il senso dell’unità e si può assistere attoniti al dolore degli altri e all’istantanea disgregazione del nucleo familiare. In effetti, ognuno sta cercando di dare la sua risposta davanti ad emozioni così potenti mettendo in evidenza questioni irrisolte che cercano un superamento. Dunque, non si tratta solo del dolore per il distacco ma di argomenti importanti legati al rapporto con il figlio, al rapporto con gli altri. Il lutto è amore che continua, al di là della morte. Anche se comporta lo scioglimento dei legami psicologici e di quelli dovuti alla presenza fisica che hanno tenuto insieme le persone care in vita, è importante sapere che l’elaborazione del dolore non comporta la perdita del legame d’attaccamento con chi non c’è più. Forse, con una certa prospettiva, questo legame ci stimola anche a curarci dei legami affettivi che ancora abbiamo qui con noi.

Il lutto non è una malattia. Molte persone si sentono dire “devi reagire” e che una sana elaborazione del lutto si accompagni necessariamente a lasciare il passato alle spalle e ad andare avanti nella vita. Invece, è legittimo pensare che questa affermazione possa frenare proprio il processo di elaborazione per il timore di una rottura di connessioni con la persona amata, che sarebbe vissuta come una dimenticanza o peggio ancora come una sorta di negazione dell’importanza che il defunto può aver avuto nella vita di chi resta. La salute sta invece nel riuscire a trovare un modo personale di mantenere un legame d’attaccamento con la persona amata riconoscendo al tempo stesso che la persona fisicamente non tornerà più. Il processo del lutto evidenzia quanto per la nostra mente i legami affettivi significativi rappresentino un qualcosa di indissolubile che ci sostiene perfino mentre cerchiamo di sviluppare lentamente un legame diverso con la persona che abbiamo perso, un legame interiore, ridefinendo se stessi e cambiando l’immagine di sé e della propria vita per adattarsi a questa nuova realtà, incanalando le risorse emozionali verso nuovi e soddisfacenti investimenti (persone, oggetti, ruoli).

Molte persone si possono sentire particolarmente a disagio nell’avvicinarsi ai genitori colpiti da un lutto così grave perché “non ci sono parole” per poter esprimere la vicinanza, i sentimenti di solidarietà, la comprensione, la consolazione ed empatia. Tutto questo insieme sarebbe ed è ideale, niente di più che una viva speranza.  Le persone in lutto sperimentano costantemente un’oscillazione tra due opposte polarità: una tesa a vivere il dolore legato alla perdita, l’altra ad allontanarsi dal dolore per poter fronteggiare le incombenze legate alle necessità del vivere. È un’oscillazione che può verificarsi anche più volte al giorno. Ovviamente, nel primo periodo sarà prevalente la polarità orientata al lavoro sulla perdita, ma, man mano che passa il tempo, prenderà il sopravvento l’altra polarità, quella orientata alla ricerca di un equilibrio accettabile. Soltanto quando questo processo sarà compiuto, la persona in lutto avrà riconquistato una dimensione progettuale e sarà di nuovo inserita pienamente nel flusso della propria vita. E non è una questione del tempo che questo processo richiede. Possono volerci mesi oppure anni. Quindi è la presenza quella che conta di più, sono i gesti che comunicano il sostegno e la partecipazione: portare un pranzo, pensare ai bisogni dei figli più piccoli, passare un po’ di tempo insieme, aiutare a riprendere i ritmi quotidiani nell’intimità della casa e, poco a poco, riprendere le altre attività. Insieme a tutto questo, personalmente ho trovato di grande conforto e sollievo le passeggiate nei boschi di Serra dove si può ascoltare il vento fra gli alberi e le piante, il canto degli uccelli, lo scorrere dei ruscelli o del fiume; dove si è immersi in un bagno neurotonico naturale cromatico e aromaterapeutico di resine, muschio, erba, terra, funghi, ecc.. Dove la maestosità degli abeti fa sentire un’energia particolare come essere abbracciati e protetti da forze superiori a noi nel cuore della Natura. Non serve parlare o dire parole azzeccate, piuttosto è importante saper ascoltare l’altro, il suo cuore, le proprie emozioni che affiorano davanti a quelle dell’altro e accoglierle, comunicarle se si sente che in questo vi è un’ utilità per l’altro.

Sappiamo da sempre, soprattutto nella nostra cultura calabrese, che curare la sofferenza di questo lacerante dolore è un carico che naturalmente viene assunto dalla comunità e dal campo sociale più ampio, offrendo una certa diluizione temporale al processo di presa d’atto della morte della persona amata. Nel caso della tragedia che ha colpito i tre ragazzi di Soriano nell’incidente stradale dello scorso 23 giugno, tutta la comunità ha dimostrato di essere stata colpita ed ha espresso il suo abbraccio, la sua vicinanza con gesti concreti e simbolici, uno fra tutti i più toccanti, significativi e profondi, stendere lenzuola bianche sui balconi in segno del dolore di tutti per una morte che ha spezzato precocemente l’alba di tre vite. Tutti i riti funebri hanno una durata e offrono ai superstiti un tempo che può consentire di fronteggiare il trauma della perdita senza essere sopraffatti dal dolore allontanandosi o auto-segregandosi, ma condividendo, narrando e piangendo i tragici eventi. Gli amici dei tre ragazzi per un ultimo saluto scrivono su un grande manifesto: “Ora siete sole, vento, aria, vestiti di parole, danzate tra lacrime di pioggia e volerete più in alto dove finisce il cielo e vi vedremo riflessi in un arcobaleno. Ciao ragazzi“. L’intensa partecipazione rituale collettiva alle commemorazioni, rassicurando soprattutto i genitori superstiti che non saranno lasciati soli e che saranno di nuovo presi dentro l’inarrestabile flusso della vita, permette di combattere l’insidia più perniciosa del lutto, che è la perdita di senso. I riti ci rassicurano che il senso della vita sta proprio nel ricordo che la persona amata ha lasciato in noi e quindi nel ricordo che noi lasceremo quando moriremo, cioè nell’eredità affettiva che abbiamo ricevuto e che lasceremo. Infatti, durante il processo del lutto, la persona deve venire a patti e anche accettare la propria mortalità. Questo significa mobilitare le risorse per:

  1. affrontare il futuro entro una nuova prospettiva, in cui non c’è più spazio per la persona che è morta, così che egli divenga un compagno/a di strada interiore, da integrare nella propria esistenza; comprendere il messaggio della persona defunta restando vicino in ciò che contava per lei, può essere una via verso la vita e verso una nuova intimità, per costruire una relazione profonda;
  2. trovare una posizione equilibrata fra la paura della propria morte e quella della sua imprevedibilità perché possiamo solo vivere pienamente e completamente, cercando di cogliere la bellezza intorno a noi e di dare qualità ai nostri giorni;
  3. continuare a considerare il futuro come obiettivo progettuale, malgrado tale imprevedibilità.

Il lutto però può divenire patologico in molti modi: con la fissazione in una condizione di dolore perenne e/o di depressione o, al contrario, con il rifiuto del dolore e della sofferenza (la negazione). Ma anche con la somatizzazione, le preoccupazioni eccessive per la propria salute, l’adozione di comportamenti pericolosi e a rischio (modalità tipica degli adolescenti), con il ricorso all’alcool e/o alle sostanze stupefacenti, con la museizzazione, cioè il non toccare, spostare o modificare nulla di ambienti e oggetti appartenuti al defunto. Questi comportamenti sintomatici testimoniano l’estrema difficoltà della persona a integrare nella propria storia, superandola, una perdita che viene percepita come distruttiva anche della propria identità. Si parla quindi di lutto traumatico, persistente e complicato. Il DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, 2013) definisce il disturbo da lutto persistente e complicato come la condizione di chi ha perso una persona cara e presenta determinati sintomi per un periodo di almeno un anno in maniera persistente e dilagante. Solitamente i sintomi fanno la loro comparsa entro un mese dalla perdita di una persona cara, ma anche successivamente. Ciò che è fondamentale è la durata prolungata per un periodo di tempo di almeno un anno di almeno 6 dei seguenti sintomi:

  • Difficoltà ad accettare la morte
  • Difficoltà ad abbandonarsi ai ricordi positivi della persona che non c’è più
  • Amarezza o rabbia in relazione alla perdita
  • Sentimenti di incredulità o torpore emotivo rispetto alla perdita
  • Evitamento di ricordi legati alla morte
  • Desiderio di morte come ricongiungimento
  • Valutazione negativa di sé, senso di colpa
  • Sensazione di vita vuota e priva di senso
  • Ridotta fiducia verso gli altri
  • Confusione circa il proprio ruolo nella vita senza la persona cara
  • Difficoltà a perseguire i propri interessi o le relazioni sociali

Per curare o prevenire questo disturbo, si può chiedere supporto allo psicologo ed essere accompagnati nell’elaborazione interiore del lutto, a livello personale, di coppia e familiare.

Adeguatamente accompagnati, quanti vivono il lutto potranno attraversare le varie fasi dello sgomento, dello shock, dei sensi di colpa, della negazione, della rabbia, della ribellione, della disperazione, della tristezza e depressione, della solitudine. Scopriranno in sé nuove potenzialità, che fino a quel momento non avevano affatto percepito, trovando infine percorsi spirituali per accettare la perdita della persona cara e gettare le basi per ricostruire il proprio futuro.

Chi fosse interessato a sottopormi dubbi o domande sui temi di questo articolo può scrivermi all’indirizzo: psicoterapiamgl@gmail.com

Per richiedere un colloquio telefonare al 3939344026

La violenza distrugge ciò che vuole difendere: la dignità, la libertà, e la vita delle persone

Questo articolo nasce su un interrogativo che mi ha rivolto il Direttore della Rivista Santa Maria del Bosco, avvocato Domenico Calvetta : “Cosa passa nella mente dell’assassino, prima, durante e nel momento dell’autodistruzione della sua famiglia?”

Munch, Separazione 1896, Oslo, Munch Museet

E. Munch – Separazione (1896)

Articolo pubblicato sul numero di marzo 2018

Davanti a fatti di questa gravità, come quello accaduto a Rende il 12 febbraio scorso, nel quale in una casa è stata ritrovata uccisa a colpi di arma da fuoco una famiglia di quattro persone: il marito/padre di 57 anni, la madre/ moglie di 59 anni, la figlia di 26 anni ed il figlio di 31 anni, le dinamiche e la storia familiare non sono subito chiare, anche se l’ipotesi è quella di omicidio-suicidio. Ognuno di noi cerca spiegazioni per controllare l’imprevedibilità e l’incredulità ma anche per comprendere le motivazioni, spesso impenetrabili, che culminano in gesti così spietati verso i propri congiunti, i propri cari e quindi verso se stessi. La risposta a questa domanda è complessa e dipende da come, caso per caso, si combinano i fattori implicati. Infatti, l’azione violenta individuale può anche essere motivata da fattori familiari, culturali e sociali che regolano un insieme di pratiche, implicite ed esplicite, impiegate per controllare il comportamento ed esercitare un potere entro le famiglie e le comunità, allo scopo di proteggere i valori culturali e religiosi e/o l’onore. Pratiche agite in modo tacito e custodite come segreti. Tuttavia, negli ultimi anni il fenomeno della violenza in famiglia non solo è cresciuto tanto da dedicare una GIORNATA INTERNAZIONALE contro la violenza sulle donne il 25 novembre, ma si è modificato. La violenza o il delitto d’onore venivano frequentemente riconosciute come azioni del meridione d’Italia o, con altre definizioni, di popolazioni selvagge e poco evolute culturalmente, oppure erano consumati eccezionalmente in seguito a gravi traumi e malattie. Oggi la violenza consumata nella famiglia è quasi sempre rivolta dal maschio verso la femmina, i figli e se stesso e si verifica sia al nord che al centro e al sud d’Italia. Ma se portiamo la nostra attenzione alla cronaca, ci accorgiamo che la violenza è diventata una caratteristica molto presente nelle relazioni umane anche oltre i nostri confini. Secondo l’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali, nell’Europa unita una donna su tre (33%), dai 15 anni in su, ha avuto un’esperienza di violenza fisica e/o sessuale. Per questo il progetto HASP (Honour Ambassadors against Shame Practices), finanziato dall’Unione Europea, adotta un approccio di genere e contribuisce a lottare contro la violenza contro le donne fondata sull’onore (HVR) in cinque Paesi: Italia, Spagna, Grecia, Bulgaria e Regno Unito. Il progetto include la prevenzione delle varie pratiche, a partire dal matrimonio forzato per arrivare ai cosiddetti crimini d’onore. Ma non c’è onore nell’attuare o nel commissionare un omicidio, un rapimento e i tanti altri atti e comportamenti che causano violenze d’amore e che compongono la violenza in nome dell’onore. La scissione delle ragioni del cuore di ciascuno dalla ragione di chi domina il gruppo familiare dà come risultato l’impossibilità di essere alla guida di una famiglia intraprendendo scelte sagge, fidate, mature e responsabili, qualità queste che esprimono realmente l’amore. Tra queste importanti azioni di conoscenza e coscienza, c’è l’iniziativa dell’Ordine degli Psicologi del Lazio che, grazie al prezioso intervento degli Ambasciatori d’onore, validi professionisti impegnati nel progetto HASP, sta organizzando una formazione di altissimo livello per i propri iscritti psicologi, impegnandosi  a diffondere le esperienze positive e a promuovere il cambiamento degli atteggiamenti basati sugli stereotipi e sui pregiudizi. In modo controintuitivo, la violenza ed il bullismo sono aumentati anche più in generale, di pari passo alla diffusione dell’ istruzione, al benessere economico, allo sviluppo scientifico e tecnologico, alle possibilità d’interazione umana, di amicizia e sociale con i social network. Sembrano connaturati a questo sviluppo attuale la perdita o il degradamento di qualità come la comprensione, la fiducia, l’empatia, la gentilezza e soprattutto la capacità di andare in aiuto gli uni con gli altri (solidarietà) di fronte ai problemi quotidiani che per questo si esasperano e si complicano. La famiglia nucleare è chiusa in se stessa e non gode dei benefici delle relazioni, una volta molto più presenti nella famiglia allargata e fra gli amici. Sembra che la conquista dell’autonomia/indipendenza vada di pari passo con la perdita di affetto per gli altri (egoismo) invece che verso la realizzazione di una migliore coesione e interdipendenza concreta, positiva e creativa fra le persone.

Dunque, la mia ipotesi è che, nel momento dell’aggressione violenta e armata, nella mente di chi la compie ci sia una sorta di buio senza pensieri e riflessioni. Mentre l’azione aggressiva è accompagnata da emozioni  personali pericolose e represse nel tempo,  non riconosciute, non elaborate, non rese coscienti né condivise e perciò insuperabili. Alcune di queste emozioni e condizioni si chiamano: rabbia, gelosia, inadeguatezza, invidia, paura, vissuti traumatici, gravi disagi e stress, isolamento. Potrei dire che la violenza cresce per una mancanza di parole.

M.G.L.

 

La motivazione ad aiutare dietro la scrittura per bambini

bambola viaggiatrice di Kafka

Ho appena finito di leggere un libro ispirato ad un caso giornalistico-letterario molto interessante. Il protagonista è Franz Kafka l’autore di testi divenuti celebri dopo la sua morte grazie all’amico Max Brod che non rispettò la volontà dell’autore di distruggere i suoi testi.

Leggendo questo libro si può capire come Kafka fu coinvolto personalmente dal dolore di una bambina per la perdita della propria bambola. La sua sensibilità fu toccata al punto da voler ripercorrere con la bambina i suoi  vissuti di disperazione, contribuendo attivamente alla loro elaborazione, superamento e conquista dello stato di serenità, con l’ aiuto della scrittura di lettere di cui Kafka, all’insaputa della bambina destinataria, era il vero autore che si presentava come il “postino della bambola giramondo” mittente dichiarata delle lettere per la bambina.

Un delicato gioco di ruoli creato con intento psicoterapeutico, con chiari vissuti di transfert da parte della bambina Elsi (piccola paziente presumibilmente di età prescolare) e controtransfert da parte del noto scrittore Kafka (messosi generosamente nel ruolo terapeuta).

L’autore che ci narra questo episodio di vita di Kafka è il giornalista, storico rock e scrittore per ragazzi Jordi Sierra i Fabra che si è fatto affascinare da un articolo di Cesar Aira (scrittore argentino e traduttore di diversi autori tra cui Franz Kafka e Jean Austin) apparso su un supplemento al quotidiano spagnolo El Pais e intitolato “La bambola giramondo”. Questo articolo raccontava le ricerche condotte su questo singolare aneddoto dalle persone più vicine a Kafka: la compagna Dora Dymant, insegnante e attrice polacca; Klaus Wagenbach, uno dei maggiori editori tedeschi del secondo novecento.

Trascinato dal magnetismo della storia tramandata come una legenda, Jordi Sierra i Fabra, parla il linguaggio giusto per l’infanzia, quello della tenerezza, dell’affetto, dell’innocenza, della credulità con tutta la complicità fra la magia dell’illusione, ed i misteri della narrazione.

Volendo invitarvi a questa piacevole lettura, mi limito a considerare quanto la sensibilità di Kafka sia stata colpita dall’intensità del dolore di una bambina, tanto da fargli annullare il valore di tutte le sue opere, desiderando che queste venissero distrutte dopo la sua morte e non pubblicate.

In questa storia Kafka comunica apertamente quanto il rapporto conflittuale con suo padre gli abbia insegnato che non fosse giusto che una bambina dovesse vivere traumatizzata da un dolore così profondo.

“Quel giorno cadde in preda allo stato di esaltazione nervosa che lo assaliva ogni volta che si sedeva alla scrivania, che fosse per scrivere una lettera o una cartolina. Con precisione chirurgica, lo sguardo di Kafka si fa scrittura nella trasformazione del visibile in segno di qualcosa che deve essere scoperto.”

Jordi Sierra i Fabra – Kafka e la bambola viaggiatrice, Ed. Salani (2010)

 

 

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POKEMON-GO E IL FILO DI ARIANNA

Nola in Labyrinthus - 2014

Nola in Labyrinthus – 2014

Ripercorrendo il boom che da qualche settimana ha coinvolto tutto il globo terrestre con l’applicazione – gioco Pokemon-Go, vorrei spiegare perché, secondo me, entrando nel mondo virtuale, qualora ne perdiamo il senso, il motivo, il filo conduttore, il controllo delle azioni che questo “sistema” ci mette a disposizione, rischiamo di perdere la vita! Ciò inteso nei termini che affidiamo ad un processo “applicazione-gioco” le nostre capacità personali di scelta e critica e noi, nella realtà, restiamo privati di senso, ossessivamente proiettati in una mappa pre formattata che non ha attinenza con la nostra vita reale se non per il bisogno di evadere da qualcuno/qualcosa che viviamo in modo pesante o diversamente da come vorremmo. Non cerchiamo più le parole per dirlo e ci appaghiamo catturando, potenziando, allenando e facendo lottare i nostri “mostri interiori” tramite quelli di Pokemon Go. Ma per questo non ci bastavano più i numerosi racconti mitologici di mostri?

Allora potremmo ancora ricorrere alla mitologia forse anche alla ricerca di soluzioni, come fece Teseo quando giunse a Creta per uccidere il Minotauro e, prima di entrare nel famoso Labirinto dove il mostro viveva, ricevette da Arianna un gomitolo di lana (il proverbiale filo d’Arianna) per segnarne la strada percorsa e quindi uscire agevolmente dal labirinto liberando gli altri ateniesi e ritornando ad Atene, la loro patria.

Dunque, come fare, a cosa prestare attenzione per non ripetere in modo stereotipato ciò che ci viene trasmesso con un gioco che ha assunto fama mondiale? Qual è la complessa portata della realtà aumentata? Perché ci blocchiamo alla percezione di un dato prodotto in serie e diffuso (la collezione dei Pokemon: cattura, potenziamento, palestre di lotta e violenza) che, più che divertire, rischia di soggiogare ipnoticamente le nostre menti?

Quel che sappiamo dell’essere umano è che, in modo costante, è un essere vivente capace di relazione e socialità sia con le altre persone che verso l’ambiente (contesto=natura e cultura) in cui è inserito.

Il suo essere nel tempo produce azioni esplorative, creative, distruttive. Questo è il segno che la sua vita non è ininfluente e che egli è dotato di capacità decisionali che gli consentono di dirigere le sue azioni verso obiettivi previsti e studiati e non solo di agire in modo casuale, istintivo, impulsivo. Tuttavia gli attuali risultati ottenuti con lo sviluppo tecnologico stanno presentandosi con un contemporaneo aumento di violenza, terrore, guerre, emarginazione, disoccupazione, emigrazione che lasciano ipotizzare l’azione sotterranea di una spaccatura nei valori della realtà. Quasi che l’uomo, non contento dei risultati raggiunti, abbia necessità di commettere nuovi errori sulla realtà creata per poter andare avanti nell’ opera creativa che è la sua vita. Come limitare i danni e potenziare i benefici? È una domanda su cui tutti siamo chiamati a riflettere e rispondere.

Da venti-trenta anni sempre di più è visibile la differenza fra realtà e mondo virtuale. Trasferendo in modo automatico la dimensione della velocità del mondo virtuale sul mondo reale, abbiamo raggiunto la liquidità nelle nostre azioni rendendo rapide, temporanee, consumistiche, rappresentative/simboliche le relazioni con gli altri e con l’ambiente sia nella realtà che nel mondo virtuale mediante i social network e le altre funzionalità che ci permettono di interagire on line.

La realtà aumentata (augmented reality) è una particolare estensione della realtà virtuale. Consiste nel sovrapporre alla realtà percepita dal soggetto una realtà virtuale generata dal computer.

La ricerca tecnologica da circa dieci anni sta cercando di migliorare, rendendola sempre più completa, la percezione del mondo di chi utilizza una device (es. iPhone, iPad di nuova generazione); essa viene “aumentata” da oggetti virtuali che forniscono informazioni supplementari sull’ambiente reale.

Il concetto chiave su cui si basa e su cui funziona la realtà aumentata è quello di inquadrare tramite una videocamera una scena all’interno della quale sono presenti uno o più stampe denominati marker e sovrapporre ad essi (sullo schermo del dispositivo) un o più oggetti a tre dimensioni con cui poter interagire.

Si immagini ad esempio di “aumentare”, appunto, la “realtà” che si ha davanti, con contenuti interattivi che consentano agli utenti di acquisire maggiori informazioni sull’oggetto osservandolo in modo facile intuitivo e stimolante. Ad esempio, osservare una scultura storica raffigurata in una comune brochure, potrebbe diventare un’esperienza unica, l’utente potrebbe infatti aumentare la sua esperienza visiva, semplicemente inquadrando con uno smartphone l’oggetto raffigurato e avere la possibilità di esplorare l’oggetto stesso in tre dimensioni, conoscere informazioni aggiuntive non visualizzabili sulla brochure o ancora visualizzarne un’animazione che ne riproduca il suo aspetto originario. In un sito archeologico, ad esempio, l’utente inquadrando con uno Smartphone un opportuno Marker, potrebbe visualizzarne l’aspetto originario, vedersi materializzare davanti la ricostruzione storica dei monumenti presenti nel sito stesso, ed esplorarne con un tocco la struttura.

Tra i progetti di realtà aumentata presenti sul web, ho scelto come emblematico il progetto finanziato da Basilicata Innovazione, in collaborazione con il Dipartimento di Matematica e Informatica dell’Università degli studi della Basilicata. “Esso ha avuto lo scopo di valutare le potenzialità ed i limiti nell’utilizzo della realtà aumentata su Smartphone. Per la sperimentazione e sviluppo di applicazioni inerenti al progetto, sono state utilizzate numerose tecnologie hardware e software.  I contenuti da fruire attraverso questa tecnologia riguardavano i beni culturali e archeologici rivolti ad un ampio bacino di turisti, quali ad esempio quelli alla ricerca e riscoperta di luoghi e siti di interesse per i quali sono desiderosi di avere sempre maggiori informazioni. L’obiettivo è quello di fornire al cliente l’esplorazione di un percorso turistico virtuale che riproduca fedelmente i siti di interesse e che consenta un certo grado di interattività. Si è tentato poi di unire all’aspetto culturale e turistico anche un aspetto commerciale, inserendo sulla mappa virtuale nei pressi dei punti individuati di rilevanza storico /culturali anche riferimenti ad attività di ristorazione, quindi di carattere commerciale. In unione all’esplorazione interattiva tridimensionale l’utente ha ovviamente la possibilità di reperire ulteriori informazioni in forma di testo, immagini e suoni, in modo da fornire una maggiore esperienza turistica, sia se utilizzata come semplice guida o integrata con l’esplorazione vera e proprio sul sito di interesse. Ancora, l’applicazione consente all’utente di esplorare la mappa in 3D con la possibilità di sorvolare, ruotare, scorrere e zummare l’intero territorio. All’interno della mappa, in corrispondenza dei punti di interesse vengono visualizzate delle icone che ne contraddistinguono il punto, selezionando l’icona viene visualizzato il nome del luogo con la possibilità di avviare l’esplorazione del punto di interesse. L’esplorazione avviene attraverso la riproduzione 3D del luogo di interesse, l’utente ha la possibilità di interagire con la ricostruzione tridimensionale osservandone così ogni dettaglio. Oltre ai punti di interesse sulla mappa vengono visualizzate anche informazioni relative a punti di ristoro o di pernottamento, l’utente attraverso una comoda barra superiore delle opzioni decide di volta in volta quale categoria di punti sulla mappa desidera visualizzare, le tre categorie previste sono: Punti di Interesse, Ristoranti e Hotel.”[1]

Riassumendo, ecco le possibilità che ci porta la realtà aumentata:

  • Configurare un ambiente interattivo complesso
  • Arricchire una mappa con immagini, testo, suoni, voci narranti, ecc.
  • Ricostruzioni 3D
  • Disporre di azioni per esplorare virtualmente una data realtà che vogliamo conoscere: ruotare, scorrere, “zummare”, sorvolare
  • Inserire un livello di metacomunicazione (con le finalità del nostro progetto) che ci permetta di effettuare chiaramente uno spostamento fra le diverse categorie di informazioni e migliorare i nostri livelli di conoscenza e apprendimento

Quest’ ultimo livello di metacomunicazione è molto importante per la comprensione delle esperienze reali e per la salute mentale delle persone. Non a caso è un concetto introdotto dagli psicologi della scuola di Palo Alto per rendere conto della complessità della comunicazione, della sua dinamica, delle sue disfunzioni e patologie. Un esempio di comunicazione e metacomunicazione è quello in cui un’affermazione verbale (comunicazione) è contraddetta da una non verbale (tono della voce o postura del corpo), che è metacomunicazione. E questa necessaria integrazione nella comunicazione virtuale rischia di andare persa senza l’intervento umano che preveda per correttezza dei messaggi veicolati, anche questi aspetti. E proprio la metacomunicazione ci permette di creare un messaggio che istituisce un differente livello di comunicazione mirando a porre in un diverso contesto un precedente messaggio, così da sottolinearne una diversa intelligibilità. La metacomunicazione si riferisce anche al livello comunicativo di tipo non verbale che viene istituito per rafforzare o per negare il contenuto della comunicazione verbale (per es., gli ammiccamenti, i gesti, e in genere ogni altro elemento che interagisce con la comunicazione verbale).

Allora non bisogna accettare che sia un gioco a prendersi il merito di far uscire le persone depresse da casa (e chi ha mai parlato loro di PokemonGO?), a spingerle ad esplorare il paesaggio in cui sono immerse! Bisogna lasciare il gioco nel gioco e non scambiarlo con la realtà, materiale o virtuale che sia! Forse nel nostro mondo non ci sono abbastanza poeti: Il poeta si comporta come il bambino che gioca. Egli crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio – in cui, cioè, investe una grande carica emotiva – e lo separa nettamente dalla realtà. (Sigmund Freud)

Questa necessità si può comprendere meglio con la visione del film “LABYRINTHUS”. Un film del 2014 per la regia di Douglas Boswell. Film per bambini (target del pubblico 9-13 anni) realizzato con un taglio adulto. È infatti un’avventura cibernetica, premiata al Giffoni Film Festival, i cui protagonisti sono ragazzi reali e animali reali, in carne e ossa, le cui esistenze e i cui corpi sono stati misteriosamente caricati da una “scatola nera fotografica”, trasportati e intrappolati nel labirinto di un videogame mentre, nella realtà, i loro corpi cadono in un sonno profondo simile al coma. In una frenetica e concitata corsa contro il tempo, il protagonista dovrà scoprire il “codice” per trovare il malvagio creatore di questo terribile gioco. “Chi entra qui perde la vita” è il messaggio nascosto nel film che può salvare tutti tranne che…

APPROFONDIMENTI:

Bateson, G., Ruesch, J. (1976) La matrice sociale della psichiatria, Bologna, Il Mulino

Bateson, G. (1977) Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi
Bateson, G. (1996) Questo è un gioco. Perché non si può mai dire a qualcuno: «Gioca!», Milano, Raffaello Cortina Editore

Bateson, G. (1984) Mente e natura, un’unità necessaria, Milano, Adelphi

Bauman Z. (2000) La solitudine del cittadino globale, Ed. Feltrinelli

Bauman Z. (2002) Modernità liquida,Roma-Bari, Ed. Laterza

Bauman Z. (2009) Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Bologna, Il Mulino

Borsoni P. “Metacomunicazione, disconferma, doppio legame, nelle teorie di Bateson, Laing, Watzlawick“, in “La Critica    Sociologica”, n.90-91, Roma

Borsoni P. (1995) Ricerca di ecologia di comunicazione, Roma, Ianua editrice

Laing R. (1959) L’io e gli altri, Milano, Rizzoli

Laing R. (1959) L’io diviso, Torino, Einaudi

Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967) Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio

Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fisch, R. (1974) Change. La formazione e la soluzione dei problemi, Roma, Astrolabio

Watzlawick, P. (1976) La realtà della realtà, Roma, Astrolabio.

Winnicott D.W. (1971) Gioco e realtà, Roma, Armando

Watzlawick, P. (1976) La realtà della realtà. Roma, Astrolabio

Watzlawick, P. (1977) Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica. Milano, Feltrinelli

[1] (cit. dal web)

 

Nuove tecnologie iTouch al servizio della comunicazione e dell’apprendimento

LearningKit e gioco didattico

LearningKit e gioco didattico

A SUCCESS STORY

La possibilità di cambiare e crescere, è essenzialmente attivare la capacità di “apprendere ad apprendere”, indica cioè l’acquisizione di un metodo, il processo di un genere di apprendimento che, pur concretizzandosi in un ‘oggetto’ facilmente descrivibile nei suoi contorni, apre allo stesso tempo a un secondo apprendimento – nuovo o di livello differente. In altre parole, l’apprendere ad apprendere va oltre l’oggetto che ha generato una specifica abilità (cognitiva, strumentale ecc.) e oltre la circostanza della sua acquisizione.

Come si giunge a tale diverso apprendimento? quali sono i fattori che lo determinano ed i meccanismi che mette in atto?

Si tratta da un lato di un apprendere ‘semplice’, che non altera la sostanza dei contenuti  e non influisce (o sembra non influire) sulla rete delle conoscenze che strutturano il modo di pensare di una persona, dall’altro si tratta di un livello di apprendimento che non resta isolato e concluso, bensì mostra i suoi effetti evolutivi, generalizzandosi,  su  altre aree della vita.

E’ il caso di due case study che ho condotto quest’anno (novembre 2015-aprile 2016) per due ragazzi di 17 anni (L.C.) e 22 anni (E. D.) con ritardo generalizzato dello sviluppo psicomotorio e Disturbi dello spettro autistico.

Nonostante la loro condizione sia evidente sin dalla prima infanzia, non mi sono accontentata di ripetere il percorso di riabilitazione standard ed ho, io stessa, posto una sfida a me stessa, cercando d’introdurre una metodologia nuova per me: la Comunicazione Alternativa Aumentativa di cui avevo letto diversi studi applicativi ma che trovavo noiosa e ripetitiva nella sua applicazione. La mia curiosità mi ha portato a cercare ‘qualcosa’ che permettesse sia di facilitare sia di personalizzare la comunicazione dei ragazzi in ogni contesto di vita: a casa, a scuola, ai centri diurni, ecc. ‘Qualcosa’ che permettesse anche all’adulto di riferimento (genitore, insegnante, assistente educativo, assistente domiciliare, ecc.) di creare “scene di apprendimento” e allo stesso tempo apprendere qualcosa di nuovo su di sè e per sè.

Questo approccio ha reso più interessante e vitale la relazione ormai decennale con i ragazzi  perchè in effetti i risultati non si sono fatti attendere ed hanno messo in evidenza:

  • l’esistenza di un’intenzionalità comunicativa, altrimenti trascurata
  • la possibilità di orientare e migliorare l’attenzione
  • la possibilità di farsi sorprendere con nuove esperienze e apprendimenti
  • la possibilità di trasmettere e comunicare contenuti della vita personale, familiare e scolastica altrimenti banalizzati e trascurati

Come?

Con la costruzione di un “sistema ausilio informatico” per la comunicazione. Un tablet con nuovi software di comunicazione. 

Oggi il  tablet è uno strumento multimediale, interattivo, facile da utilizzare e socialmente condiviso che attualmente può essere personalizzato con  applicazioni didattiche e di comunicazione di qualità facilmente reperibili sul mercato.

Queste applicazioni coprono sia gli ambiti educativi tramite i giochi che i vari ambiti disciplinari e permettono agli allievi di apprendere in modo autonomo e raggiungere il successo scolastico. Oggi il tablet permette di personalizzare i materiali e di applicare specifiche strategie di intervento che tengono conto di esigenze e abilità dei singoli alunni.

E così per me è ora entusiasmante e piacevole incominciare ad organizzare un servizio di consulenza e supporto volto a creare percorsi di apprendimento e comunicazione facilitati  per bambini e ragazzi (4-14 anni) coinvolgendo allo stesso tempo le figure adulte di riferimento in una relazione arricchita da nuovi possibili obiettivi.

Arrivederci fra qualche mese per la presentazione di questo servizio innovativo che permette una reale personalizzazione degli apprendimenti! 😉

Poiché la scelta di un ausilio va compiuta a seguito di un’attenta osservazione dell’utente e di un’analisi dei suoi bisogni, cui fanno seguito alcune ipotesi di utilizzo o adattamento degli strumenti, seguiti da un’opportuna verifica dell’efficacia degli stessi, offrirò un’ulteriore opportunità  di  una consulenza gratuita a scopo dimostrativo (DEMO).

BIBLIOGRAFIA

Gregory Bateson, “Le categorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione” e “Pianificazione sociale e deuteroapprendimento”, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976 – sedicesima edizione, con l’aggiunta di nuovi saggi, Milano 2000.

David Beukelman, Pat Mirenda, Manuale di Comunicazione Aumentativa e Alternativa. Interventi per bambini e adulti con complessi bisogni comunicativi, Erickson, 2014

Maria Antonella Costantino, Costruire libri e storie con la CAA. Gli IN-book per l’intervento precoce e l’inclusione, Erickson, 2012

Sara Rosati, Norma Urbinati, Allenare le abilità socio-pragmatiche. Storie illustrate per bambini con disturbi dello spettro autistico e altri deficit di comunicazione, Erickson, 2016

Silvano Solari, Comunicazione aumentativa e apprendimento della letto-scrittura. Percorsi operativi per bambini con disturbi dello spettro autistico, Erickson, 2013

Le regole d’oro per l’amore buono, oggi, secondo Joan Garriga

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[.Qui ci sono una dozzina di miti, o credenze irrazionali. Possiamo cambiare questi pensieri e atteggiamenti con quelli più sani ed efficaci.
1. Non potevo vivere senza te / Senza di te sarebbe ANCHE andato bene
Ci sono due adulti che si sostengono sulle proprie gambe, non due bambini in cerca dei loro genitori. Senza di te potrei andare troppo bene, ma essere con te e stare insieme scalda il mio cuore.
2. Ti amo, ti amo … /Bene, amate anche VOI STESSI
Si tratta di un enorme regalo amare le ombre degli altri, il loro ego, le loro difficoltà, ed essere compassionevole con questo, perché significa che siamo in grado di riconoscere l’altro membro del rapporto, in realtà, più in ombra. La coppia è un ambito di crescita in cui la durezza dell’ego che si è in grado di sopportare, si presenta attraverso l’amore condiviso.
3. Fammi felice / Spontaneamente sentono il desiderio di essere felici
La coppia non è pensata per darci la felicità, ma se uniamo tutte le sue dimensioni sperimentiamo qualcosa di vicino alla beatitudine. Riteniamo che apparteniamo a qualcosa, abbiamo creato un’ intimità, un legame, per costruire le strade della vita.
4. VOGLIO UNA COPPIA / Meglio preparati per la COPPIA
L’eccesso di “Io” e individualità sopra il senso del “noi” diventa il partner in un campo straordinario di libertà e, allo stesso tempo ci espone sempre più alla solitudine e all’incertezza. Entrambi allo stesso tempo. Se si vuole avere un partner, che lavora dentro di te per trovare il proprio tono e il modo di essere compagno o compagna, il resto sarà dato in aggiunta.
5. Io do tutto il meglio di me / Meglio: ti dò ciò che mi tiene nella stessa gradazione con te
La coppia è un rapporto alla pari, in cui dobbiamo fare in modo che ci sia uno scambio di equilibrio e di giustizia per mantenere la gamma di parità. Dare molto è in grado di generare nell’altro un senso di debito e sminuirlo. Meglio quello che l’altro può restituire in qualche modo, dal momento che un interscambio fertile fa crescere la felicità.
6. Dammi tutto / Dammi quello che potrà mantenermi nella mia dignità
Quando qualcuno in un rapporto chiede tutto, all’altro, sospettiamo due cose: primo, che la persona è un bambino e la seconda, quella persona certamente non sta andando a prendere ed apprezzare ciò che è dato, perché è ancorato ad un pizzico di insoddisfazione che vive nella domanda, e che, anche se ha partecipato, non soddisfa. Meglio premiare il positivo, lo scambio negativo è offensivo.
7. Spero sia intenso ed emozionante / Vorrei che sia facile
Alcune relazioni sono senza intoppi e facilmente non cigolano. Sono il risultato dell’ unione di due nature che armonizzano senza grandi discordanze. Altre volte, tutto è difficile, nonostante l’amore. Quando una relazione è intensa emotivamente, diventa spesso devitalizzante. Infatti il grande tumulto emotivo e i giochi psicologici sono debilitanti e mortali. Essi hanno a che fare con i ricordi di ferite d’infanzia e vecchi desideri non soddisfatti.
8. Lotta per il potere / COLLABORAZIONE
Troppi secoli di lotte e sofferenze, uomini e donne, ci portano alla riconciliazione. È meraviglioso quando la coppia, entrambi sentono dentro, in realtà, in fondo, che non c’è migliore né peggiore, e camminano insieme. Non uno sopra e uno sotto, non uno davanti e uno dietro. Cooperano. Sono compagni e amici e fratelli e amanti e partner. Uno e uno fa due. Donne profonde si sentono spesso migliori degli uomini. Secondo le mie statistiche, le più intelligenti si prendono cura che i loro partner non se ne accorgano.
9. PENSO, che tu senti davanti alle difficoltà “si salvi chi può”/ riso e pianto insieme e insieme ci apriamo alla gioia e al dolore
Le coppie affrontano a volte male i loro problemi legati ai processi di vita: i bambini non arrivano, ci sono aborti, morti o malattia dei propri cari, alti e bassi economici ed esistenziali…. Si tratta di questioni che mettono alla prova la capacità di carico della coppia, che la rafforzano o la portano al collasso, a mettere risentimenti e miglia di distanza.
10. E’ PER SEMPRE / Una cosa alla volta
Entrare nell’ amore romantico significa anche diventare un candidato per il dolore di una possibile fine. Oggi parliamo della monogamia sequenziale, cioè, che statisticamente ci si può aspettare di avere tre o quattro coppie per tutta la vita, con conseguente complesso stress emotivo e transiti coinvolti. Quando c’è un accordo istituzionale, abbiamo l’opportunità di creare la coppia ogni giorno, a modo nostro, e che ci permette di vivere. Se si raggiunge la fine, impariamo il linguaggio del dolore, la leggerezza e il distacco, e poi di nuovo nella corsia dell’amore e della vita.
11. Prima i bambini poi i genitori /Prima noi, prima le nostre famiglie d’origine e insieme i nostri figli
Buono a sapere che l’amore fa meglio in universi ordinati di relazione: i genitori devono essere genitori e i bambini sono bambini, la coppia che si è creata (che può includere i bambini di precedenti relazioni) hanno la precedenza sui partner precedenti o rispetto alle famiglie di origine. Lasciate che il passato sia onorato e fino ad un buon presente e un buon futuro. Alcune persone danno più importanza ai bambini avuti insieme rispetto a quelli della precedente relazione, e ciò finisce per creare disagio a tutti. Allo stesso tempo, una ulteriore coppia dovrebbe sapere che è più probabile occupare un buon posto nella famiglia se si accetta che i figli del compagno/a c’ erano prima e rispetta questa priorità.
12.Ti conosco / Ogni giorno ti vedo e ti riconosco
Alcune coppie non guardano la persona accanto a loro, ma con le immagini interiori che si sono formate di quella persona nel corso del tempo. Vivono nel passato e dimenticano di aggiornarsi ogni giorno. Per evitare questo, aiuta molto aprire la percezione ad ogni nuovo momento e non dare l’altra persona per scontata. L’altro si accende quando lo riconosciamo e lo scopriamo di nuovo, e in questo modo anche noi diventiamo di nuovo giovani.]
Trad. it. di M.G.L.
L’articolo successivamente è stato pubblicato  sul numero di agosto 2018 della Rivista Santa Maria del Bosco (Serra San Bruno-VV) diretta da D. Calvetta

L’ordine e la stabilità della vita stanno nella sua struttura problematica

Rene Magritte - La nuit de Pise (litografia)

Rene Magritte – La nuit de Pise (litografia)

Ignacio Matte Blanco in Pensare, sentire, essere : riflessioni cliniche sull’antinomia fondamentale dell’uomo e del mondo (Einaudi, 1995)  dice che le emozioni e l’inconscio sono strutture bi-logiche, ovvero contengono una logica simmetrica, espressione del modo indivisibile. L’emozione può essere considerata come un oggetto mentale che contiene elementi troppo complessi per essere compresi dalla logica tridimensionale, e quindi non può essere tradotta fedelmente in linguaggio verbale.  Tuttavia, se i contenuti del nostro inconscio sono inaccessibili alla nostra coscienza, le emozioni rientrano anche nella sfera della nostra consapevolezza e, sia pure parzialmente, siamo in grado di pensarle, ovvero ridurle ad eventi, cioè in oggetti tridimensionali.

Poiché il pensiero pensa soprattutto attraverso immagini, l’unico modo che ha per “vedere” qualcosa che non si limita a tre dimensioni è quello di appoggiarsi ad un’unica immagine, che sia in grado sia di suggerire sia di sintetizzare ciò che non può essere visto nella sua interezza, e di essere contenuta dai limiti angusti della coscienza. Lo psicoanalista ci porta un esempio che può rendere più facile la comprensione. “Si racconta che, mentre si recava quotidianamente da casa sua al Center of Advanced Studies di Princeton, Einstein fece amicizia con una ragazzina che faceva ogni giorno la sua stessa strada. A un certo punto egli iniziò ad aiutarla nei suoi studi di matematica. È molto probabile che, nello spiegare gli elementi della matematica, Einstein usasse un linguaggio che, per un esperto, conteneva profonde intuizioni sull’ argomento. È altrettanto probabile che almeno alcune di queste intuizioni non espresse non fossero colte dalla ragazzina che probabilmente “comprendeva” i concetti elementari, in modo diverso da come avrebbe potuto assumerle da un insegnante meno profondo”.

Come la bambina non era in grado di comprendere completamente le intuizioni di Einstein, così la nostra mente tridimensionale è incapace di assumere un oggetto troppo complesso, di dimensioni superiori a tre. Si può trattare di un oggetto mentale (un’emozione, un contenuto inconscio) o anche di un eventuale (ma non è detto che esista) oggetto fisico: in entrambi i casi si tratta di un oggetto che possiede un numero di dimensioni superiore a quelle che siamo in grado di comprendere coscientemente.

La nostra intelligenza può concepire spazi con dimensioni superiori alle tre dimensioni dello spazio geometrico,  ma si tratta di un modo di concepirli che non è un pensare strutturato nello spazio e nel tempo, ma un sentire che non appartiene alla logica classica aristotelica.

Il nostro pensiero dunque è limitato dalle categorie spazio-temporali, e perciò non può essere consapevole di più di una cosa per volta. Emerge subito l’impossibilità di cogliere esaustivamente tutte le sfumature che ci fanno sentire la vitalità delle nostre emozioni: per diventare consapevoli dell’emozione che stiamo provando in un dato momento, siamo costretti ad interrompere l’esperienza diretta di questa emozione per acquisire la consapevolezza che la stiamo provando. Questo non annulla la nostra emozione, ma la modifica. Ad esempio, se concentriamo intensamente la nostra attenzione sul dolore nello stesso istante in cui lo stiamo provando, probabilmente l’intensità del dolore diminuisce, visto che la nostra coscienza non riesce a contenere due oggetti alla volta (l’attenzione sul dolore e il dolore stesso). Viceversa, se tentiamo di non pensare al dolore nello stesso istante in cui lo stiamo provando, lo sentiremo più intensamente.

Tutte le emozioni dunque contengono “esperienze infinite”, poiché non abbiamo altro modo di interpretare attraverso le nostre strutture cognitive tridimensionali qualcosa che possiede un numero superiore di dimensioni. Alla luce di questa ipotesi, si può comprendere meglio per quale motivo per descrivere emozioni e sentimenti vengono spesso usate spesso metafore e linguaggi più evocativi, come quello poetico. Suoni, immagini e altri mezzi espressivi artistici, linguaggi non trasparenti che suggeriscono senza indicare esattamente contenuti, possono far riferimento ad una realtà non strettamente legata alla percezione tridimensionale.

Matte Blanco ha elaborato il concetto di antinomia fondamentale, cioè l’idea che la vitalità si realizza nella contraddizione della combinazione del modo eterogenico e indivisibile e che si esplicita in forme diverse: nel linguaggio filosofico e matematico  essa si esprime in paradossi e antinomie; nel linguaggio psicologico essa si esprime in sintomi, immagini oniriche e in tutte le formazioni di compromesso causate dalle esigenze pulsionali inconsce e in molti luoghi comuni della vita quotidiana.

Ancora, Matte Blanco analizza la difficoltà di esprimere in parole i propri sentimenti, difficoltà comune a tutti anche se in misura diversa, non solo nel caso in cui le emozioni sono vaghe e confuse, ma anche di fronte a quelle più forti e violente. Dunque, possiamo esporre con ordine e chiarezza i contenuti dei nostri pensieri e delle nostre percezioni, ma non siamo in grado di definire i nostri sentimenti. Quando lo facciamo, spesso siamo costretti a ricorrere a metafore, paragoni, illustrazioni che non sono certo precise. Uno dei luoghi in cui il nostro modo di essere mostra il suo nucleo antinomico è in questa impossibilità di tradurre in logica le nostre emozioni.

Tuttavia l’emozione viene percepita e quindi può essere comunicata con un linguaggio che utilizza il codice logico del pensiero: le parole. Le parole  tuttavia, sono un contenitore inadatto per le emozioni, ed è per questo motivo che per descrivere le emozioni è necessario ricorrere al linguaggio metaforico dell’arte. Un quadro o una poesia sono in grado di condensare numerosi contenuti, mentre una parola si riferisce in genere ad un singolo contenuto.

L’emozione perciò, seguendo questa ipotesi, sarebbe una struttura bi-logica, ovvero una costruzione mista di logica classica e simmetrica.  In altre parole, l’emozione è sostanzialmente diversa dal linguaggio della logica, non è definibile usando la logica classica e non è quantificabile in numeri. Certo, è possibile misurare le reazioni fisiologiche dell’organismo, ma finora non è stato possibile definire l’esperienza soggettiva dell’emozione, cioè le sue qualità, il suo ruolo nell’equilibrio psichico e nei rapporti interpersonali. Ad esempio con un poligrafo (macchina della verità) possiamo misurare l’intensità delle reazioni dell’organismo, ma non possiamo sapere con certezza le qualità e le motivazioni che sottendono tale reazione.

Chi può dire se un’emozione anche intensa è dovuta alla consapevolezza di mentire, alla paura, o al fatto che il soggetto sottoposto al poligrafo si stia mordendo la lingua? L’emozione “tende all’infinito” proprio perché non è misurabile in una quantità finita.

Diverse espressioni del linguaggio quotidiano possono rivelare in che modo le emozioni contengono l’esperienza dell’infinito.

Prendiamo ad esempio il comune sentimento di impotenza, tanto frequente nei momenti di sconforto. Matte Blanco osserva che l’espressione  comune “io non sono capace di fare niente” trascende i limiti della logica aristotelica ed abbraccia l’infinitamente piccolo. Analizzando il significato letterale di questa affermazione, ci accorgiamo che “non essere capaci di far nulla” equivale ad un grado d’ incapacità non raggiungibile da un essere umano. Infatti, l’espressione rimanda ad un livello d’ incapacità eccessivo rispetto   alla reale “piccolezza” delle capacità umane.

Ancora, Matte Blanco riprende l’esempio dell’innamoramento. Quale innamorato dirà di amare “per un certo tempo e in un determinato luogo”? Un innamorato giusto dichiarerà sempre di amare per sempre, e ovunque. L’emozione si inserisce nella categoria della quantità, sotto la forma di quantità infinita.

Nelle emozioni più intense, odio e amore, gioia e dolore, è abbastanza facile rintracciare “esperienze infinite”. Infatti, quando l’emozione è molto forte, tende ad invadere, espandersi e ricoprire l’intero campo della coscienza, mentre i confini spazio temporali si fanno molto sfumati. All’interno di queste esperienze, la logica classica conta ben poco. Secondo Matte Blanco l’infinito matematico non è altro che una traduzione incompleta in termini tridimensionali di un pensiero che opera in un numero di dimensioni superiore.

La logica classica dunque per parlare di sentimenti deve tradurli in una quantità infinita. In questo modo, essa compie un’operazione strettamente analoga all’appiattimento di una mela reale alle due dimensioni di un vassoio. Come la mela, schiacciata in un vassoio, produce una superficie bidimensionale molto estesa, che finisce col debordare dal vassoio, così il sentimento, traducendosi in logica, si moltiplica in espressioni di quantità infinite.

Bibliografia

Ignacio Matte Blanco, Pensare, sentire, essere : riflessioni cliniche sull’antinomia fondamentale dell’uomo e del mondo, Einaudi, 1995

Ignacio Matte Blanco, L’ inconscio come insiemi infiniti : saggio sulla bi-logica, Einaudi, 1981

Analisi del 2015

I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2015 per questo blog.

Ecco un estratto:

Una metropolitana a New York trasporta 1 200 persone. Questo blog è stato visto circa 7.700 volte nel 2015. Se fosse una metropolitana di New York, ci vorrebbero circa 6 viaggi per trasportare altrettante persone.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

#VoltaPagina: al prossimo capitolo ci sono proprio tutti i tuoi desideri ;-)

“Follia è fare sempre la stessa cosa attendendosi risultati diversi” (Albert Einstein)

Come puoi ottenere risultati migliori se fai sempre le stesse cose? Cioè, se ti comporti sempre allo stesso modo, per esempio ripetendo le tue reazioni, le tue abitudini, oppure rimanendo legato/a a convinzioni infondate? Per esempio, se ti schermi dietro il tuo carattere e quello degli altri? Per esempio, se trovi alibi e scuse che ti bloccano o boicottano il tuo cammino?

Il cambiamento, il desiderio e la realizzazione di progetti, coinvolgono funzioni psicologiche, problemi e reazioni emotive che seguono andamenti significativi che lo psicologo può facilitare

#VoltaPagina, cambia qualcosa, apri il dialogo, individua i tuoi schemi, le tue convinzioni, incomincia a definire un tuo punto di forza.

Non devi fare tutto da solo! In questo percorso, lo psicologo è un alleato dei tuoi desideri e dei tuoi progetti.

#VoltaPagina, ri-scopri  la tua creatività, riprendi il controllo della tua vita!

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