Rivelazioni

Premessa

I giorni difficili sono sempre più lunghi ed i problemi sembrano intensificarsi fino a farci male. Voglio ringraziare gli amici ed i colleghi che si sono accorti di quanti sacrifici io stia sopportando fiduciosa che “a cuor contento il ciel l’aiuta”.

Tuttavia, la dimensione spirituale personale non basta ad arginare le complesse problematiche che interessano oggi il mondo del lavoro, le famiglie, le persone, soprattutto i ragazzi ed i giovani.  Sempre più ostacoli sembrano frapporsi nelle relazioni intergenerazionali che invece dovrebbero costituire la membrana vitale per il benessere di tutti ed ognuno.

Oggi il mio ringraziamento si concretizza in questo dono. Una meditazione (per me preziosa) che ci può aiutare sia a cambiare atteggiamento verso molte emozioni negative, a trasformarle presto affinché non si condensino in sentimenti resistenti e nocivi, sia a sintonizzarci in modo armonioso verso obiettivi di bene comune, al di là di tutte le nostre differenti attività.

Questa meditazione è tratta dal libro Acorn (Gallucci, 2014) di  Yoko Ono (Tokio, 1933), artista giapponese e attivista politica, nota universalmente per le sue opere d’avanguardia e per il sodalizio con John Lennon.

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Siate benedetti per la vostra rabbia

perche’ e’ segno di crescente energia.

non indirizzartela alla vostra famiglia, non sprecatela

con il vostro nemico.

Trasformate l’energia in versatilità

e vi porterà prosperità.

Siate benedetti per il vostro dolore

perche’ è segno di vulnerabilità.

Non condividetelo con la vostra famiglia, non dirigetelo

contro voi stessi.

Trasformate l’energia in compassione

e vi porterà amore.

Siate benedetti per il vostro intenso desiderare

perché è segno di grande capacità.

Non indirizzatelo alla vostra famiglia. Non indirizzatelo

al mondo.

Trasformate l’energia in un dono.

Donate quanto desiderate ricevere,

e sarete soddisfatti.

Siate benedetti per la vostra gelosia

perché è segno di empatia.

Non indirizzatela alla vostra famiglia, non indirizzatela

ai vostri amici.

Trasformate l’energia in ammirazione

e quel che ammirate

diventerà parte della vostra vita.

Siate benedetti per la vostra poaura

perché è segno di saggezza.

Non trattenetevi nella paura.

Trasformate l’energia in flessibilità

e sarete liberi

da quel che temete.

Siate benedetti per la vostra ricerca di una direzione

perché è segno di aspirazione.

Trasformate l’energia in ricettività

e la direzione verrà da voi.

Siate benedetti per i momenti in cui vedete il male.

Il male è energia gestita malamente e si nutre

grazie a voi.

Non nutritelo e si autodistruggerà.

Emanate luce e cesserà di esistere.

Siate benedetti per i momenti in cui non provate amore.

Aprite comunque il vostro cuore alla vita

e ci sarà un momento in cui troverete

l’amore in voi.

Siate benedetti, siate benedetti, siate benedetti,

siate benedetti per quel che siete.

Siete un mare di bontà, un mare di amore.

Contate le benedizioni ogni giorno perché sono

la protezione

che si frappone fra voi e quel che non desiderate.

Contate le maledizioni e saranno un muro

che si frappone fra voi e quel che desiderate.

Il mondo ha tutto ciò di cui avete bisogno

e voi avete la forza

di attrarre quel che desiderate.

Desiderate la salute, desiderate la gioia.

Ricordatevi che qualcuno vi ama.

Io vi amo!

Date parole al vostro dolore

Uno degli studi più famosi riguardanti il suicidio è quello del sociologo Emile Durkheim: Il suicidio. Studio di sociologia – 1897

Secondo il sociologo, pur sembrando in apparenza un atto soggettivo, imputabile a infelicità personale cronica, depressione, disperazione, acuita sensibilità agli eventi negativi della vita, ecc., Durkheim mostra come ci possano essere dei fattori sociali che esercitano un’influenza determinante al riguardo, soprattutto ciò che egli chiama anomia, rottura degli equilibri della società e sconvolgimento dei suoi valori. Durkheim scarta le spiegazioni del suicidio di tipo psicologico; ammette che vi possa essere una predisposizione psicologica di certi individui al suicidio, ma secondo lui la forza ultima che determina il suicidio non è psicologica, bensì sociale. Elenca i quattro tipi di suicidio:

1) il suicidio egoistico che si verifica a causa di una mancata o carente integrazione della persona nel contesto sociale. Durkheim aveva analizzato le categorie di persone che si suicidano, e aveva notato che in presenza di legami sociali forti (appartenenza a comunità religiose, matrimonio, ecc.) il tasso di suicidio è notevolmente ridotto, se non assente. Secondo Durkheim dunque, il suicidio di tipo egoistico è causato dalla solitudine con la quale l’individuo non integrato si trova a dover affrontare i problemi quotidiani.

2) il suicidio altruistico si ha quando la persona è troppo inserita nel tessuto sociale, al punto da suicidarsi per soddisfare l’imperativo sociale (ricordiamoci che per Durkheim è la società che crea gli individui, e non viceversa) come esempio c’è la vedova indiana che accetta di esser posta sul rogo che brucerà il corpo del defunto marito (Sati), o il comandante di una nave che sta per affondare, il quale decide di non salvarsi e di morire affogando insieme alla nave (… Certo, non nel famigerato caso di Schettino, che costituisce l’eccezione).

3) il suicidio anomico, tipico delle società moderne, sembra collegare il tasso dei suicidi con il ciclo economico: il numero dei suicidi aumenta nei periodi di sovrabbondanza come in quelli di depressione economica.

4) il suicidio fatalista, si verifica quando la vita di una persona è eccessivamente regolamentata, quando il futuro è bloccato senza pietà e le passioni soffocate violentemente da una disciplina oppressiva. È l’opposto del suicidio anomico e appare nelle società troppo opprimenti, cosa che comporta che la gente potrebbe arrivare a preferire di morire piuttosto che continuare a vivere in questo tipo di società. Un buon esempio potrebbe essere l’interno di una prigione; alcune persone potrebbero preferire morire che vivere in una prigione con l’abuso costante e un eccesso di regolamentazione che vieta loro di perseguire i loro desideri. La corrente suicidogena come Durkheim l’ha chiamata, presuppone anche un coefficiente di preservazione, cioè delle condizioni soggettive che diminuiscono o aumentano la probabilità del suicidio. Per esempio, Durkheim ha notato che i cattolici hanno un coefficiente di preservazione maggiore rispetto ai protestanti (in pratica si suicidano di meno) e che le donne sposate hanno un coefficiente di preservazione più alto rispetto alle nubili; tuttavia, in questo caso, superata una certa età, il coefficiente di preservazione si tramuta nell’opposto, divenendo così coefficiente di aggravamento, in quanto le donne di età avanzata non sono più soddisfatte dall’avere un marito, quanto dall’avere dei figli.

Sono del parere che un gesto come il suicidio sia qualcosa di molto complesso e personale che si origina nella mente di chi lo compie molto tempo prima del suo agito o acting out. È un gesto ultimo che accade molto probabilmente quando non si vedono più vie d’uscita sia dentro di se’ che fuori di se’.

Dunque, questo gesto è concepito in una condizione di malessere psicologico e sociale ed il fattore maggiore di rischio è che la persona quasi mai confida i suoi pensieri angosciosi, le idee depressive e sulla morte.

Nessuno è vaccinato contro questo atto distruttivo e autodistruttivo proprio perché dipende dalle reazioni di ciascuno ai cambiamenti della vita: malattie gravi e invalidanti, disoccupazione, perdita di status socio-economico, lutti, sono alcuni dei fattori personali che interagiscono con la condizione sociale, familiare, portando ad uno stato di chiusura, di freddo e lucido autocontrollo la persona che pianifica il suicidio. Qualunque altra crisi (isterica, psicotica, di panico, di angoscia, ecc.) sarebbe esternata in modi eclatanti con la perdita di controllo da parte della persona. Perciò,  il suo malessere viene comunicato agli altri che possono dare aiuto. Invece, il suicidio è  subdolo perché  le dinamiche psicologiche che lo precedono sono gestite in silenzio nel corso di una vita fin troppo controllata.

Dunque, di fronte ad un atto del genere non è mai il caso di precipitarsi in congetture e conclusioni. Invece è il caso di prestare attenzione, diventare sensibili, a tutti i segni e alle condizioni che possono potenzialmente far aumentare la possibilità che sia compiuto un suicidio. Spesso riconoscere negli altri, o in se stessi, uno stato di sofferenza, di dolore, di grave disperazione o insoddisfazione, già basta per aprire un varco prima dell’alzarsi della barricata.

Sigmund Freud  sosteneva che sulla scena della psicoanalisi, prima dello psicoanalista, arriva sempre prima un poeta:  “Date al dolore la parola; il dolore che non parla, sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi.” (William Shakespeare- Machbet)

Suggerimento bibliografico:

Luigi Cancrini, Date parole al dolore. La depressione, conoscerla per guarire, Frassinelli, 2003

L’anima dell’aiuto e la psicologia dei popoli

Cosa significa aiutare ?

Aiutare è un’arte ed è anche necessario immedesimarsi in chi cerca aiuto, mettersi nella prospettiva di ciò che gli corrisponde e ciò che, allo stesso tempo, va oltre, verso qualcosa di più ampio.

L’immagine primordiale dell’aiutare

L’immagine primordiale dell’aiutare è il rapporto fra genitori e figli, in particolare fra madre e figlio.             I genitori danno, i figli prendono. I genitori sono grandi, superiori e ricchi, i figli sono piccoli, bisognosi e poveri. Dal momento che genitori e figli sono legati da un profondo amore, fra loro dare e prendere può essere pressoché illimitato. Tuttavia lo sono solo finché i figli sono piccoli. Con il passare del tempo i genitori tracciano dei limiti contro cui i figli possono scontrarsi e maturare. I genitori sono meno affettuosi nei confronti dei figli? Sarebbero genitori migliori se non ponessero dei limiti? Oppure sono bravi genitori proprio perché pretendono dai figli qualcosa che li prepara a diventare adulti? Molti figli si arrabbiano con i genitori perché avrebbero preferito mantenere l’originaria dipendenza. Tuttavia è proprio ritraendosi e deludendo le aspettative che i genitori aiutano i propri figli a liberarsi della dipendenza e ad agire, passo dopo passo, sotto la propria responsabilità.

Solo così i figli assumono il proprio posto nel mondo degli adulti e si trasformano da coloro che prendono in coloro che danno. 

Aiutare come compensazione

L’aiuto è regolato dal bisogno di compensazione. Gli esseri umani dipendono dall’aiuto degli altri. Solo così possiamo svilupparci. Allo stesso tempo siamo anche predisposti ad aiutare gli altri. Chi non è necessario agli altri, chi non può aiutare, diventa solitario e intristisce. Aiutare non serve dunque solo agli altri, ma anche a noi stessi. Perciò, l’aiuto è generalmente reciproco.

Spesso le possibilità di compensare restituendo sono limitate, come ad esempio nei confronti dei genitori. Ciò che ci hanno donato è troppo grande per poterlo compensare dando a nostra volta. Quindi l’unica cosa che ci resta da fare è accettare ciò che ci viene donato ed esprimere il ringraziamento che viene dal cuore.

La compensazione, donando a nostra volta, e la conseguente liberazione sono possibili in questo caso solo trasmettendo ad altri, ad esempio ai figli, ciò che abbiamo ricevuto.

Dare e prendere avvengono dunque a due livelli. Fra pari si mantiene sullo stesso livello e richiede reciprocità. Nell’altro caso, fra genitori e figli o fra superiori e bisognosi, esiste un dislivello. Dare e prendere sono dunque un flusso che porta avanti ciò che ha in sé. Questo modo di dare e prendere è più grande. Tiene conto di ciò che viene dopo. Questo tipo di aiuto accresce l’importanza del dono. Colui che aiuta viene trascinato e legato in qualcosa di più grande, ricco e duraturo. Questo modo di aiutare presuppone che abbiamo prima ricevuto e accettato. Solo così sentiamo l’esigenza e la forza di aiutare gli altri, soprattutto se tale aiuto richiede un grande sforzo. Allo stesso tempo, presuppone che coloro che desideriamo aiutare abbiano bisogno e desiderino ricevere ciò che siamo in grado di donare. Altrimenti il nostro aiuto finisce nel vuoto. Divide invece di unire.

 La percezione speciale

Per poter agire nel rispetto degli ordini dell’aiutare, è necessaria una percezione speciale.

Questi “ordini” non vanno applicati in modo rigido o metodico; non devono orientarci a pensare, a riflettere o a riferirci ad esperienze passate, quanto piuttosto permetterci di esporci alla situazione specifica per comprendere l’essenziale, percepire in modo mirato e allo stesso tempo distaccato.  Questo tipo di percezione consente di orientarsi verso una persona senza aspettarsi nulla di preciso, tranne che comprenderla interiormente e stabilire il successivo passo da compiere. Questa percezione scaturisce dal raccoglimento. In esso si abbandonano la riflessione, gli obiettivi, le differenziazioni e le paure. Ci si apre a qualcosa che ci muove dall’interno: ai movimenti dell’anima.

Allora, percepiamo qualcosa che determina movimenti precisi, immagini e voci interiori e sensazioni insolite, al di là del nostro abituale modo di pensare. Ci guidano dall’esterno e, allo stesso tempo, all’interno. Percepire e agire coincidono. Questo tipo di percezione è dunque meno ricettivo e descrittivo, ma più produttivo. Porta all’azione e grazie a essa diventa più profonda. Il periodo in cui si è in grado di aiutare sulla base di tale percezione è generalmente breve. Si limita all’essenziale, mostra il passo successivo, sparisce velocemente e ci lascia presto alla nostra libertà. Poi, ognuno percorre la propria strada.

Questo tipo di percezione riconosce quando è opportuno aiutare e quando è dannoso, quando ostacola più che favorire, quando serve a lenire più la propria sofferenza che quella dell’altro. Ed è umile.

Primo ordine dell’aiutare

Il primo ordine dell’aiutare consiste dunque nel dare solo ciò che si possiede e nell’aspettarsi
e accettare solo ciò di cui si ha bisogno. Parallelamente, il primo disordine dell’aiutare inizia quando vogliamo dare ciò che non abbiamo e prendere ciò di cui non abbiamo bisogno. Oppure quando ci aspettiamo e pretendiamo dall’altro ciò che non ci può dare, perché non lo possiede.
Ma anche quando non dobbiamo dare qualcosa perché sottrarrebbe all’altro qualcosa che può o deve sopportare da solo. Dare e prendere hanno dunque dei limiti.
Riconoscere tali limiti e rispettarli fa parte dell’arte dell’aiutare. Questo modo di aiutare è umile. Spesso rinuncia ad aiutare di fronte alle aspettative e al dolore. Questa umiltà e questa rinuncia contraddicono molti punti di vista tradizionali sul giusto modo di aiutare ed espongono spesso il facilitatore ad accuse e attacchi.
 
Secondo ordine dell’aiutare
L’aiuto serve da una parte alla sopravvivenza e dall’altra allo sviluppo e alla crescita.
Sopravvivenza, sviluppo e crescita sono legati a particolari condizioni, sia interiori che esteriori.
Aiutare consiste dunque nel sottomettersi alle circostanze e nell’intervenire solo nella misura in cui esse lo consentono. Questo aiuto è discreto, ha forza.
In questo caso il disordine dell’aiutare consiste nel negare le circostanze invece di guardarle negli occhi insieme a chi ha bisogno di aiuto.
Voler aiutare opponendosi alle circostanze indebolisce sia colui che aiuta sia colui che si aspetta aiuto, oppure colui a cui viene offerto o addirittura imposto aiuto.
 
Terzo ordine dell’aiutare
Molti facilitatori, ad esempio nel campo della psicoterapia e nel sociale, credono di dover aiutare coloro che chiedono aiuto come fanno i genitori con i propri figli. Allo stesso modo, molti di coloro che hanno bisogno di aiuto si aspettano di essere aiutati come fanno i genitori con i figli, per ricevere a posteriori ciò che ancora si aspettano e pretendono dai genitori.
Passo dopo passo devono porre dei limiti a coloro che cercano aiuto e deluderli.
Colui che aiuta e colui che viene aiutato sono entrambi liberi.
Questo principio è realizzabile quando c’è l’ accettazione dei veri genitori perché consente a colui che aiuta di evitare in partenza il transfert fra figli e genitori. Se si rispettano nel proprio cuore i genitori delle persone che vengono aiutate, se si è in armonia con questi genitori e con il loro destino, le persone aiutate potranno anche incontrare i propri genitori in coloro che offrono aiuto.
Il terzo ordine dell’aiuto prevede dunque che il facilitatore si ponga da adulto di fronte a un adulto che cerca aiuto.
 
Quarto ordine dell’aiutare
Sotto l’influsso della psicoterapia individuale, coloro che aiutano affrontano spesso l’altro che richiede l’aiuto come individuo isolato. Anche in questo caso si correil rischio di creare un transfert fra figli e genitori. Tuttavia il singolo fa parte di una famiglia. Solo percependolo come membro di
una famiglia, chi aiuta si rende conto di chi l’altro ha bisogno e nei confronti di chi è in debito.  La realtà di chi ha bisogno di aiuto può essere percepita solo nel momento in cui lo si vede insieme ai genitori e agli antenati e magari anche con il partner e i figli.
In questo modo ci si rende conto di chi all’interno della famiglia ha bisogno del suo rispetto e del suo aiuto e a chi deve rivolgersi per comprendere quali passi deve compiere. Quindi colui che porta aiuto si deve immedesimare in modo non tanto personale quanto sistemico.

In questo caso il disordine dell’aiutare consiste nel non tenere in considerazione e non rispettare altre persone importanti che hanno in mano la chiave della soluzione.

Anche in questo caso si corre il rischio che questo modo sistemico di immedesimarsi venga giudicato duro da coloro che avanzano pretese infantili nei confronti di chi aiuta.

Chi invece cerca una soluzione in modo adulto percepisce il metodo sistemico come una liberazione e una fonte di forza.

Quinto ordine dell’aiutare

Il vero aiuto consiste nell’ unire ciò che prima era diviso. In questo senso è al servizio della riconciliazione, soprattutto con i genitori e gli antenati. La riconciliazione viene ostacolata dalla distinzione fra bene e male compiuta spesso da coloro che aiutano sotto l’influsso della coscienza e dell’opinione pubblica imbrigliata nei limiti di tale coscienza.
Ad esempio, quando un cliente si lamenta dei propri genitori, delle proprie condizioni di vita o del proprio destino e il facilitatore fa proprio tale punto di vista, si mette al servizio del conflitto e della separazione e non della riconciliazione.
Aiutare al servizio della riconciliazione è possibile solo se il facilitatore attribuisce un posto nella propria anima a ciò di cui il cliente si lamenta. In questo modo il facilitatore compie nella propria anima ciò che il cliente deve ancora portare a termine.
Il quinto ordine dell’aiutare è dunque l’amore nei confronti di tutti, così come sono, per quanto possano essere diversi da noi. In questo modo il facilitatore apre il proprio cuore. Diventa parte dell’altro.
Ciò che si è riconciliato nel suo cuore si riconcilia anche nel sistema del cliente.
In questo caso il disordine dell’aiutare è costituito dal giudizio nei confronti degli altri, che è generalmente una condanna ed è legato allo sdegno moralistico.
Chi aiuta veramente, non giudica.

Aiutare i popoli ad affrontare la povertà

Di conseguenza, l’aiuto diretto ai popoli più poveri deve tener conto dell’ordine in cui questo deve essere dato, poiché, altrimenti, esso può cadere nel vuoto, creare disordine sociale generando rivalità, aggressività, contesa, ingiustizia, devianza e perciò risultare addirittura dannoso anziché utile alla sopravvivenza, alla crescita, allo sviluppo.

Aiutare e prendersi cura dell’altro implica la capacità di essergli accanto. Ma chi è l’altro che incontro e scopro diverso da me? Perché accoglierlo? Per dovere? Per etica professionale? Per educazione? Le emozioni ed i sentimenti rivestono un ruolo fondamentale nelle relazioni. Negarli o volerli nascondere non consente a coloro che si dedicano all’attività di aiuto e/o di cura di agire un buon aiuto, una buona cura. Il rispetto, il riconoscimento e il dialogo sono requisiti indispensabili all’accoglienza, ma è l’ascolto, fra tutte, la facoltà che ci consente di entrare in contatto con il mondo dell’altro, un ascolto (per dirla con le parole di Simone Weil) in cui trovi posto il silenzio, l’attenzione, l’umiltà.

L’ ottocento, che fu il secolo delle espansioni coloniali da parte di alcuni Stati Europei (Inghilterra, Francia, Germania, ecc.), ci ha già dato testimonianza di modalità e comportamenti discutibili nell’invadere, nello scontrarsi, ma anche nell’incontrarsi con popolazioni diverse. L’indiscutibile approccio etnocentrico di questi Stati ha considerato e definito “primitivi” in modo frettoloso gli usi e costumi autoctoni solo perché le ha messe in riferimento diretto ai propri. In particolare, Simone Weil ci fa notare come la politica coloniale della Francia, pur ispirandosi a principi di libertà ed uguaglianza, negli anni del Fronte popolare e delle sinistre al potere, non fosse cambiata, perseverando nell’ opprimere popoli di altra storia e cultura in spregio delle loro identità e dignità, così come la Germania nazista aveva iniziato a fare nei confronti degli stessi popoli europei.

Tuttavia, nonostante la coercizione dello spirito colonialista, per molti avveduti uomini di pensiero, il seme della curiosità scientifica era stato gettato.

Si sviluppò l’antropologia culturale, con il programma scientifico di comparare le diverse culture in tutti i loro aspetti: religiosi, artistici, morali ecc.. Nacque un genuino interesse per “l’alterità”.

Wilhelm von Humboldt (1767-1835) coniò il temine “psicologia dei popoli” (volkerpsychologie) e propose l’interessante ipotesi che, popoli di lingue diverse, avrebbero immagini del mondo diverse. In altre parole, la lingua appresa andrebbe a incidere sulla formazione psichica degli individui: a lingue diverse corrisponderebbero psicologie diverse (detta anche ipotesi di Sapir-Whorf).

I veri fondatori della psicologia dei popoli furono tuttavia, il filosofo Moritz Lazarus (1824-1903), Hermann Steinthal (1823-1899) e lo stesso fondatore della scuola psicologica di Lipsia Wilhelm Wundt (1832-1921).  Wundt sarà l’autore di una poderosa opera in 10 volumi intitolata “psicologia dei popoli” (1900-1920), dove si cerca di studiare la “psicologia collettiva” nelle sue manifestazioni culturali permanenti.

Il loro proposito, solo parzialmente realizzato, era quello di studiare in modo comparato la cultura dei diversi popoli, al fine di scoprire le leggi che portano allo sviluppo del comportamento sociale.

Attraverso un’antropologia comparata, attraverso lo studio delle culture, delle religioni, dei linguaggi, dei miti, dei costumi e dell’arte, si sarebbe giunti, per questi autori, a conoscere importanti aspetti della psicologia umana.

Dunque, se la povertà di oggi viene osservata da un punto di vista macrosociale come un prodotto della storia socio-culturale, ed economico-politica, per superarla in modo equo e corretto, è necessario affrontarla con modalità e metodi che rispettino i contesti di vita di tale complessità.

I partecipanti alla Conferenza del CISP (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei popoli) negli anni 2007-2008, hanno elaborato gli approcci e le priorità operative “Per i diritti e contro la Povertà”, studiando il ruolo degli aiuti nei contesti di crisi del mondo contemporaneo.

Il CISP ha altresì elaborato il proprio Codice di Condotta per i programmi di cooperazione internazionale, individuando le seguenti priorità:

1. I progetti sono finalizzati al soddisfacimento di bisogni effettivi delle popolazioni e  vengono definiti tenendo conto delle caratteristiche economiche, sociali e culturali dei diversi contesti. Questo significa, tra l’altro, esercitare una costante attenzione affinché tali progetti siano condotti nel rispetto delle culture locali.
 
2. La prassi di cooperazione aspira alla massima valorizzazione delle risorse tecniche, professionali e materiali locali. Questo comporta, ad esempio, che le funzioni assegnate al personale espatriato non devono mortificare o marginalizzare ruoli e apporti del personale locale, ma piuttosto promuoverne e valorizzarne le capacità. Rientra in questo quadro anche la promozione di forme ed azioni di cooperazione regionale Sud-Sud.
 
3. Le attività realizzate nei paesi terzi tendono a rafforzare, migliorare o, se necessario, modificare i piani di intervento nazionali, ma in nessun caso possono essere concepite senza tenerne conto. La cooperazione non può infatti sovrapporsi o sostituirsi alle istanze locali di pianificazione. Al contrario, solo agendo nel pieno rispetto del ruolo di tali istanze e dialogando con esse, la cooperazione può godere della autorità e del prestigio per negoziare – quando necessario – l’introduzione di correttivi nelle politiche e
 nei piani di intervento locali.
 
4. Per garantire una elevata efficacia dei progetti è necessario dedicare attenzione alla identificazione, pianificazione, monitoraggio e valutazione degli stessi. Queste attività devono essere realizzate con la partecipazione dei beneficiari e l’informazione elaborata in tale contesto deve essere loro restituita.
 
5. La professionalità costituisce un criterio deontologico fondamentale, che qualifica il rapporto tra il CISP, i paesi e le comunità presso i quali esso interviene e rappresenta una pre-condizione per l’affermazione di relazioni efficaci basate sulla collaborazione e sul rispetto reciproco.
 
6. Fermo restando il principio delle non ingerenza nella vita politica e religiosa dei paesi terzi, si considera opportuno promuovere, anche attraverso specifiche collaborazioni operative, il ruolo di istituzioni ed organismi la cui prassi concreta contribuisce a processi di sviluppo e democratizzazione. In questo quadro, si considera particolarmente importante la valorizzazione del ruolo delle associazioni femminili e di quelle che rappresentano gli interessi dei piccoli produttori e degli altri soggetti marginali (rifugiati, comunità indigene, minoranze etniche, ecc.).
 
7. Per ragioni di trasparenza, i governi, i partner e le comunità locali devono essere informati sulle fonti delle risorse che rendono possibile la realizzazione degli specifici progetti.
 
8. I progetti devono essere gestiti in modo tale da assicurarne la sostenibilità economica, sociale ed istituzionale e il perdurare dei benefici da essi indotti. La loro conduzione deve inoltre tenere conto della necessità di ottimizzare l’uso delle risorse finanziarie, affinché queste rechino il massimo beneficio possibile alle popolazioni locali.
 
9. Il coordinamento concreto tra le agenzie e gli organismi di cooperazione internazionale e le istituzioni dei paesi beneficiari costituisce uno strumento importante in ordine alla maggiore efficacia delle azioni e delle politiche intraprese. Al riguardo, il CISP assicura la sua disponibilità a rendere note le informazioni relative alle sue attività.
 
10. Per quanto relativo alle azioni umanitarie finalizzate al superamento di emergenze complesse, il CISP aderisce al Codice di Condotta elaborato dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, che afferma, tra gli altri, i seguenti principi: diritto universale all’assistenza umanitaria, senza limitazioni legate all’ideologia, alla religione, alla razza, al sesso o ad altre considerazioni; autonomia politica ed operativa degli interventi affinché questi non finiscano con il sostenere, soprattutto in situazioni di conflitto,
una particolare fazione; rispetto dei diritti della persona, così come sono definiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
 
Inoltre il CISP ha così definito le sue priorità strategiche:
 
I. Diritto alla sicurezza sociale ed economica: sviluppo di opportunità di reddito, migrazioni e sviluppo, sicurezza alimentare
 
II. Diritto alla salute ed accesso all’acqua e sanitation
 
III. Diritto al Futuro: Diritti dell’Infanzia, degli Adolescenti e dei Giovani e Valorizzazione dell’Ambiente e delle Risorse Naturali
 
IV. Diritto all’assistenza umanitaria: Emergenza e Prima Ricostruzione
 
V. Appoggio alle politiche pubbliche per la coesione sociale e alla società civile 

B I B L I O G R A F I A

AA.VV., I grandi miti della psicologia popolare. Contro i luoghi comuni, Editore Raffaello Cortina, 2011

Bonaglia F., De Luca V., La cooperazione internazionale allo sviluppo, Il Mulino, 2011

CISP (a cura di), Per i diritti e contro la povertà, Stampa tipografica Beniamini, Roma, 2008

CISP (a cura di) Cibo e conflitti, Plus (Collana studi del CISP), 2010

Loya e Sapuile Belchior do Rosario, Religione e società in Africa. Evoluzione storica e comparazione giuridica: il caso dell’Angola, Plus (Collana studi del CISP), 2005

Fatos D., Tucci M, Contro l’autostima, Bonanno, 2009

Hellinger Bert, Gli ordini dell’aiuto. Aiutare gli altri e migliorare se stessi, Tecniche Nuove, 2007

Le Bon Gustave, Psicologia delle folle, TEA, 2004

Le Bon Gustave, Psicologia dei popoli, M & B Publishing, 1997

Moritz Lazarus, Psicologia dei popoli come scienza e filosofia della cultura, Bibliopolis, 2008

Nutile Emanuele, Analisi psicologica del Mezzogiorno. Come utilizzare efficacemente le peculiarità psicologiche delle popolazioni, Rubbettino, 2001

Maseri G. Poli N., Vicinanza e lontananza attraverso gesti di cura, Franco Angeli, 2007

Maseri G., Prendersi cura dell’altro. Dal rispetto al riconoscimento attraverso il dialogo e la cura, Il Pensiero Scientifico, 2009

Pennisi A., Falzone A., Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive, Il Mulino, 2010

Sironi Francoise, Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica, Feltrinelli, 2011

Weil Simone, La colonizzazione ed il destino dell’Europa, Marietti, 2009

Wundt Wilhelm, Opere scelte di Psicologia dei popoli, UTET, 2009

 

Offerta di un cuore su mano tremante

Ti offro strade difficili, tramonti disperati,
la luna di squallide periferie.
Ti offro le amarezze di un uomo
che ha guardato a lungo la triste luna.

Ti offro i miei antenati, i miei morti,
i fantasmi a cui i viventi hanno reso onore col marmo:
il padre di mio padre ucciso sulla frontiera di Buenos Aires,
due pallottole attraverso i suoi polmoni,
barbuto e morto, avvolto dai soldati nella pelle di una mucca;
il nonno di mia madre – appena ventiquattrenne –
a capo di un cambio di trecento uomini in Perù,
ora fantasmi su cavalli svaniti.

Ti offro qualsiasi intuizione sia nei miei libri, qaualsiasi virilità

o vita umana.
Ti offro la lealtà di un uomo
che non è mai stato leale.
Ti offro quel nocciolo di me stesso
che ho conservato – in qualche modo –
il centro del cuore che non tratta con le parole,
nè coi sogni e non è toccato dal tempo,
dalla gioia, dalle avversità.

Ti offro il ricordo di una
rosa gialla al tramonto,
anni prima che tu nascessi.
Ti offro spiegazioni di te stessa,
teorie su di te, autentiche e sorprendenti
notizie di te.

Ti posso dare la mia tristezza,
la mia oscurità, la fame del mio cuore;
cerco di corromperti con l’incertezza,
il pericolo, la sconfitta.

Jorge Luis Borges – “Two English Poems” (seconda lirica), 1933-1934

Due righe sull’autore

Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo (1899-1986) scrittore, poeta e traduttore argentino. Ritenuto fra i più importanti e influenti scrittori del XX secolo, è stato ispirato dagli scrittori sudamericani, dalla letteratura inglese e dal Taoismo.  Narratore, poeta e saggista, è famoso sia per i suoi racconti fantastici, in cui ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (quali: il doppio, le realtà parallele del sogno, i libri misteriosi e magici, gli slittamenti temporali), sia per la sua più ampia produzione poetica, dove, come afferma  Claudio Magris si manifesta “l’incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto“.

Oggi l’aggettivo «borgesiano» definisce una concezione della vita come un intreccio di storia, fiction, menzogna, come  opera contraffatta spacciata per veritiera e che evoca emozioni di stupore paradossale.

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